Clemente Biondetti

di Donatella Biffignandi

 

CLEMENTE BIONDETTI il più grande stradista italiano

 

Corse nove Mille Miglia e ne vinse quattro, un record ineguagliato

 

Donatella Biffignandi 

 

Parlare di  Clemente Biondetti, e rievocarne vita e gesta a cinquant’anni esatti dalla morte, pare quasi una riparazione nei confronti di una vita che non gli rese giustizia. Non fu solo il cancro, che se lo portò via a cinquantasette anni dopo molti mesi di sofferenza; il “Biondo” dovette sempre combattere contro nemici più o meno insidiosi per conquistarsi la meritata fama, per ottenere il  riconoscimento del suo valore, o anche soltanto una macchina con cui correre. I numeri della sua vita: duecento corse, tra cui nove Mille Miglia, 138 volte classificato, quindici marche tra auto e moto pilotate, oltre trent’ anni di attività corsaiola. Un carattere considerato difficile, o forse solo poco accomodante, impulsivo e sanguigno, sincero e leale, un combattente nato, uno che non risparmiava mai né sé, né i suoi soldi, se si trattava di correre.

Da giovane ostentava un viso tagliato dall’accetta, duro e quadrato come un pugile del Bronx; da più anziano un viso come smarrito, che una profonda cicatrice sulla fronte, testimonianza di uno spaventoso incidente, rendeva bizzarro. Toscano fino all’osso, anche se nato in Sardegna (a Buddusò, in provincia di Cagliari, nel 1898, lo stesso anno di Ferrari) e di padre veneto, aveva cominciato ad appassionarsi al motorismo fin da ragazzo, nell’officina di riparazioni di automobili a Firenze di Roberto Barsanti. Lì, nel primo dopoguerra,  convenivano anche altri giovani fiorentini di buona e ottima famiglia: i conti Carlo e Giulio Masetti, il marchese Niccolini, il conte Gastone Brilli Peri (primo campione del mondo con l’Alfa Romeo nel 1925) ed Emilio Materassi, allora autista della corriera sul tratto Pontassieve – Firenze, che guidava come più tardi avrebbe guidato la sua “Italona” (vedi Auto d’Epoca, novembre 2004).

Il primo a morire di questo gruppo di amici che poi diventarono famosi come quelli “del bar di via Tornabuoni”, fu Barsanti, che si uccise nel 1921 nel chilometro lanciato alle Cascine. Primo di una lunga serie che fece lentamente il vuoto intorno a Biondetti: egli vide morire Masetti in Sicilia, Materassi a Monza, Brilli Peri a Tripoli...

Ma in quegli anni, tra il 1919 e il 1923, non esisteva spazio per pensieri di questo genere. Anzi, come tutti i giovani pensava probabilmente di essere immortale e si buttava nella mischia con un coraggio che sfiorava l’incoscienza, e non sempre ne usciva senza conseguenze. Con la moto acquistata grazie ai risparmi lira su lira, una Galloni 500, aveva debuttato alla torinese Sassi – Superga nel 1923, e colse la sua prima vittoria (di categoria) alla Vermicino -–Rocca di Papa e sul circuito messinese dei Monti Peloritani su una Galloni 750. Tra il 1924 e il 1925 gareggiò con tre moto diverse, la Norton 500 (vittoria al Circuito Pisano), la Excelsior 350 e la A.J.S. 350, con cui si aggiudicò il Campionato Pisano del 1925. Nel 1926, un terribile incidente al circuito motociclistico di Ostia, sul ponte della Decima, località vicino ad Ostia. Un ponte troppo stretto perché vi passassero in due. Tentarono di passarvi in tre, Biondetti e altri due concorrenti, Bassi e Boris. Il risultato fu Bassi morto sul colpo, Boris moribondo e Biondetti fermo un anno per ventiquattro fratture. Anche questo fu tra i motivi che lo spinsero, l’anno dopo, a tentare la sorte con le automobili. L’età era già rispettabile, ventinove anni suonati. Fu attirato, inizialmente, dalle vetturette 1100, allora dominate da Abele Clerici, ed alla Terni – Passo della Somma del 1927 eccolo al volante della piccola Salmson con cui si iscrisse ad una ventina di gare, fino a metà stagione del 1929 (con una parentesi in cui corse per le Talbot della Scuderia Materassi). Colse una dozzina di vittorie di categoria (al Criterium Roma e alla Coppa Ciano nel 1927; alla Susa – Moncenisio, al circuito del Montenero, alla Coppa Ciano e alla Coppa Leonardi nel 1928) e nel 1929 si laureò Campione Italiano 1100. La sua vettura successiva fu una Bugatti 2000, con cui arrivò la sua prima vittoria assoluta, alla Collina Pistoiese del 1929, seguita da un identico successo sulla ligure Pontedecimo – Giovi e da un secondo posto alla Vermicino – Rocca di Papa, dove aveva debuttato in moto sei anni prima. Nel 1930 alternò la Bugatti con una Talbot e anche con la Salmson. I risultati furono buoni: quattro vittorie assolute,  alla Coppa Pierazzi – Grosseto, alla Coppa della Consuma, alla 900 metri lanciati di Viareggio, alla Coppa Massarose – Camaiore; molte vittorie di categoria ed anche un terzo posto al Gran Premio di Tripoli. Al termione della stagione, il titolo di Campione Italiano 1500.
Nel 1931, al volante ora di una Maserati, ora della Bugatti, ottenne risultati meno incoraggianti. Una vittoria assoluta alla Coppa Pierazzi – Grosseto, qualche buona vittoria di categoria, come per esempio quella alla Susa Moncenisio e al Gran Premio di Roma (dove arrivò terzo assoluto), un terzo posto al Gran Premio di Francia. Ma sono risultati inferiori alle sue speranze e alle sue aspettative.

Seguirono cinque anni di stallo. Biondetti, privo di una buona macchina e di un ingaggio decente, non era tipo da starsene con le mani in mano. Nel 1931 si iscrisse al Gran Premio d’Italia del 24 maggio su un ibrido da lui assemblato utilizzando un motore Maserati e un telaio Bugatti  (da cui M.B.).* Si tratta presumibilmente della stessa vettura che Luigi Premoli, Campione Italiano 1930 e 1931 per la categoria fino a 1100, mise a punto e  usò alla Pontedecimo – Giovi 1932 e quindi portò alla vittoria alla successiva Sassi - Superga, battezzandola poi P.M.B. (Premoli Maserati Bugatti). Una bella soddisfazione per Biondetti, che riuscì ad andare sui giornali non come pilota ma come costruttore: infatti Premoli colse la vittoria assoluta a quasi 68 km/h di media, imponendosi su 51 avversari.  Il R.A.C.I. indica la vettura nel testo come M.B. (“Pur con una superficiale conoscenza del percorso, Premoli ha tenuto quasi 68 km/h di media pilotando la M.B., la vettura costruita da Biondetti con motore Maserati 2800 cc su chassis Bugatti che lo stesso Premoli ha messo a punto”) e nelle didascalie come B.M. (“Il conte Premoli sulla B.M. con la quale ha vinto battendo il record”). Auto Italiana incorre nella stessa contraddizione: nel testo è M.B. (“la vittoria assoluta toccò … al conte Premoli che dopo di essere riuscito a dimostrare, nella Pontedecimo – Giovi, che la complicata costruzione M.B.  già del buon Biondetti era in grado finalmente di marciare, dimostrò a Superga che oggi è in grado di vincere”), e nelle didascalie B.M. (“Premoli su B.M. 2800 a metà percorso”). Quel “finalmente” potrebbe adombrare difficoltà di messa a punto, risolte dal successivo intervento di Premoli, che forse sono la causa del mancato utilizzo a Monza l’anno prima.
Nelle stagioni 1932 e 1933 sia Premoli sia Biondetti gareggiarono in contemporanea in diverse gare utilizzando perciò almeno due versioni di questo ibrido. Colui che ne riportò più soddisfazioni fu Premoli, che nel 1934 si aggiudicò quattro vittorie (di cui una persa per squalifica) e un terzo posto. Biondetti ottenne sì qualche qualificazione, ma poca roba: nel 1932 si classificò una volta sola, al circuito del Lago di Bolsena, quattro volte nel 1933, cinque nel 1934. Ma nessun risultato eclatante.

Nel 1936 fu ingaggiato finalmente da una grande casa italiana, l’Alfa Romeo, con cui debuttò alla corsa in salita in terra di Francia Develiers-Les Rangers (1° assoluto), per proseguire con la Mille Miglia (quarto), la salita dello Stelvio (terzo).

Il grande riscatto arrivò alla Mille Miglia del 1938: una vittoria assoluta su Alfa Romeo 8C 2900B spider, in coppia con Aldo Stefani. Fu una vittoria indimenticabile, ottenuta stabilendo il primato della media più alta (135,391 km/h) che durò fino all’edizione del 1953. Lo consacrò, o doveva consacrarlo, nel novero dei grandi campioni, alla pari di Nuvolari e Varzi. Quell’anno corse anche alla Parma – Poggio di Berceto (secondo), alla Coppa Ciano (secondo di categoria), e soprattutto al Gran Premio d’Italia (quarto).

Questa fama non si tradusse però in tranquillità economica, in un ingaggio sicuro. Ci si mise anche la guerra ad oscurare i suoi meriti, a farlo dimenticare in fretta, tanto che all’edizione 1947 della Mille Miglia proprio lui si trovò senza macchina. Si trattava di un’edizione che diventò rapidamente il simbolo di un’Italia che voleva uscire dalla povertà, dal dramma della guerra, dalle privazioni: fu definita la “Mille Miglia della rinascita”.  Biondetti era finito al margine di tutto questo, costretto a recarsi a Brescia da Firenze in treno, tanto per provare a dare un’occhiata in giro, e vedere se ne poteva uscire qualcosa. Ma nutriva poche speranze. Invece ebbe un insperato colpo di fortuna: incontrò Emilio Romano, pilota e preparatore, che aveva messo a punto una Alfa Romeo 8C 2900 B, e che gli propose di correre con lui, dribblando la presenza di uno sportivo veronese già prenotato e che, cavallerescamente (magari sollecitato da Romano…) rinunciò in suo favore. Detto, fatto: una stretta di mano, salirono in macchina, partirono… e vinsero.

Una vittoria straordinaria, ottenuta a dispetto di tutto, contro i più bei nomi dell’automobilismo mondiale, ottenuta senza quasi preparazione, e con nessun appoggio. Nello stesso tempo, una vittoria alla Biondetti: nel ricordo generale, l’edizione del 1947 è stata quella di Nuvolari, considerato universalmente il vero vincitore, sulle cui vicende sfortunate (condusse tutta la gara in testa, finché durante un temporale violento che lo colse al volante della Cisitalia scoperta lo costrinse a rallentare) si concentrò l’attenzione di tutti. I giornali parlarono quasi soltanto di lui, già da tempo diventato una leggenda: e l’affermazione inaspettata del pilota toscano quasi passò in secondo piano. Ultimo, ma simbolico dettaglio: all’arrivo di Biondetti, tale era il maltempo che non vi erano né fotografi né giornalisti, e neanche tanto pubblico.

Difficile non risentire di questa ingiustizia subdola, di questo mancato riconoscimento. Biondetti reagì da par suo: gli anni 1948 e 1949 segnarono l’apice della sua carriera sportiva. In entrambi gli anni, durante i quali corse come pilota Ferrari con una 166, vinse il Giro della Sicilia e la Mille Miglia (insieme a Navone nel 1948 e a Salami nel 1949), oltre che il Gran Premio di Svezia ed altre gare minori: si classificò comunque in altre 17 competizioni. Fu sicuramente uno dei più fertili piloti Ferrari del periodo. I suoi risultati lo dimostrarono tra i più forti stradisti del mondo, dotato di intelligente capacità tattica e di un istinto naturale che gli permetteva di sfruttare al meglio le doti proprie e della vettura, inserendosi magistralmente nelle défaillances altrui. Né abbandonò il suo antico “vizio” di trafficare su telai e motori  cercando di mettersi insieme da solo la “macchina perfetta”. Tramontata la “Biondetti-Maserati” o “Maserati – Bugatti”, cercò nel 1947 di realizzare una otto cilindri mettendo insieme otto motori Norton da 500 cc che, sembra, era andato a comprare in Inghilterra. Il risultato fu un’accozzaglia senza senso alcuno, che non ebbe seguito. Molto più serio il tentativo successivo. Le sue splendide vittorie gli erano valse un abboccamento, al Salone Internazionale di Ginevra del 1950, con Lofty England, della Jaguar, intenzionato ad offrirgli una guida per la stagione sportiva su una XK120. Trattandosi di modelli nuovi, i dirigenti della casa britannica erano desiderosi di guadagnare dall’esperienza sul campo dati utili per la messa in produzione, e avevano perciò bisogno di un buono stradista, di qualcuno che sapesse usare le macchine e condurle al traguardo, se non addirittura vincere. Biondetti poteva essere l’uomo giusto al momento giusto, tanto più che era nota nell’ambiente la sua crescente insofferenza verso le case italiane che, a dispetto di quanto era riuscito a fare (nessun pilota, né prima di lui né dopo, colse quattro vittorie alla Mille Miglia e due alla Targa Florio), tendevano a considerarlo un pilota di secondo piano. Sarà stata l’età, od altro, ma questa ineliminabile “marginalità” perseguitava Biondetti da anni. Non ebbero da sudare molto, i dirigenti Jaguar, per convincerlo ad accettare una delle nuove XK120 per la Targa Florio prevista al successivo 2 aprile. Fu un’ottima gara, anche se sfortunata: Biondetti era secondo, con due minuti su Bracco, tre su Marzotto e quattro su Villoresi (davanti a sé soltanto uno scatenato Alberto Ascari) quando la rottura di una biella lo costrinse al ritiro. Tutto sommato, per essere la prima gara, ne furono tutti soddisfatti, a maggior ragione Biondetti che fece sapere alla Jaguar di essere interessato sia a guidare una loro macchina a Le Mans e a Spa, sia a ricevere un motore da montare su un telaio Maserati, per realizzare la sua personale “Jaguar special”.

Prima di Le Mans e di Spa vi era la Mille Miglia, a cui si iscrissero quattro Jaguar XK, una affidata a Biondetti. Questi, dopo una serie infinita di guasti e disguidi che avrebbero scoraggiato chiunque, non lui, il “never-say-die-driver”, come fu definito dai dirigenti della Jaguar, resistette a tutto (persino alla rottura di una sospensione) e si classificò ottavo. “Mi è spiaciuto molto non aver vinto come mi immaginavo, conoscendo i punti di forza e di debolezza degli altri piloti come li conosco io. Se non fosse stato per quella sospensione e il costante battito in testa, e cambiando una sola gomma…sono sicuro che avrei perso meno tempo della differenza finale tra il tempo del vincitore e il mio. Volevo ritirarmi a un certo punto ma non l’ho fatto per non danneggiare il nome della Jaguar…” scrisse alla casa britannica il giorno dopo la gara. Questo però non gli impedì di rivolgersi nuovamente a loro per ottenere una vettura da modificare, il suo solito chiodo fisso. Obiettivo: farla pagare alle case italiane, opponendo loro un modello Jaguar alleggerito di 250 kg. La Jaguar accettò, anche per sdebitarsi delle vetture che il toscano era riuscito a piazzare in giro per l’Italia, ma si limitò a concedergli dei motori. A Biondetti poteva bastare. A Monza, nel settembre dello stesso anno (1950), si presentò con una Ferrari – Jaguar, una vettura con telaio Ferrari, carrozzeria della 166 e motore XK Jaguar, che così per la prima volta, volente o nolente, si trovò a partecipare ad un gran premio di F1. Il risultato non fu eclatante: 15 giri non velocissimi, quindi il ritiro. La sua “Jaguar Special” gli diede maggior soddisfazione alla Firenze – Fiesole dell’anno successivo, dove arrivò primo e stabilì il record di velocità. Miglior auspicio per la Mille Miglia non poteva ottenere, e vi si iscrisse con grande aspettativa. Enorme delusione fu perciò il ritiro, dopo 140 km di gara, per una torsione del telaio causata dalle pessime strade. Neanche le gare successive lo resero felice: un terzo posto di classe alla Susa Moncenisio e un secondo alla Aosta - Gran San Bernardo furono i risultati migliori.

Alla Mille Miglia del 1952 Biondetti riuscì a sdoppiarsi. Aveva sperato di poterci partecipare con una C type, quando gli fu inaspettatamente offerta una vettura dalla casa di Maranello. “Aspettai venti giorni prima di dire di sì – scrisse più tardi alla casa di Coventry – non è facile descrivere come è stato triste essere obbligato a tornare alla Ferrari, anche se solo temporaneamente, dopo tutto quello che è successo in questi ultimi anni. Ma l’ho dovuto fare, per non deludere gli sportivi italiani che avrebbero disapprovato una mia assenza dalla Mille Miglia”. Ed anche per  più concreti motivi economici: le spese a cui era andato incontro con le sue “special” erano state pesantissime. Accettò dunque di guidare una Ferrari 225S in coppia con Ercoli, ma iscrisse  anche la sua Jaguar Special, guidata dalla coppia Pezzoli – Cazzulani. Sia il pilota toscano sia la sua vettura dovettero però ritirarsi. Biondetti guidò ancora una Ferrari alla 10 ore Notturna di Messina in coppia con Cornacchia, una gara dal finale drammatico. La vettura, in testa, era rimasta pressoché priva di sospensione e l’ultimo giro che Cornacchia compì fu una tortura sia per chi guidava sia per Biondetti che assisteva. All’arrivo, finalmente un primo posto.

Nel 1953, ancora una Mille Miglia, terminata ottavo al volante di una Lancia D20  in coppia con Barovero, e una bellissima vittoria alla Coppa della Toscana. E quando si imbarcò nella stagione 1954, aveva 55 anni e già sapeva di essere stato colpito da cancro alla gola (una foto scattata in quegli ultimi mesi lo ritrae con al collo una pesante sciarpa…e tra le dita una sigaretta). Nonostante questo vinse con una Ferrari la 6 Ore di Bari e arrivò secondo al Giro delle Calabrie, quarto all’ennesima Mille Miglia, quarto al Giro d’Italia, quinto alla Targa Florio.

Quando morì, in una gelida mattina del febbraio 1955, Franco degli Uberti su Auto Italiana scrisse: “Con Clemente Biondetti è una gran parte della storia del nostro automobilismo che perde l’ultimo addentellato  con quell’epoca in cui ancora lo sport sapeva di romanticismo più che non di speculazione, di interesse commerciale e di ambizioni, con quell’epoca in cui chi aveva la passione si arrangiava a sfogarla come poteva anche ritirandosi sempre, anche “tappezzando la casa di cambiali” come diceva ad un collega il pilota scomparso”. E se questo si poteva già dire cinquant’anni fa…

 

 

28  settembre 2005

donatella biffignandi per auto d’epoca