Enzo Ferrari
Nei miei ricordi di quindicenne dei primi anni '80 Enzo Ferrari è un vecchio signore sempre protetto dagli occhiali scuri. La sua voce anziana dal dolce accento emiliano raccontava senza emozione dei dolori privati e delle fortune sportive agli intervistatori di turno e le lenti scure nascondevano il suo sguardo, probabilmente spesso ironico e divertito. Non ho mai capito quanto narcisismo si celasse, in fondo, dietro a quegli occhiali scuri che impedivano di osservare le sue emozioni, incutevano una soggezione di cui dicono gli intimi fosse compiaciuto e che però gli permettevano di osservare, inosservato, l'interlocutore. Chissà quanta ironia, quanto compiacimento e quanto narcisismo, per l'appunto, dietro le sue parole, le sue battute caustiche, i suoi giudizi taglienti, le sue frasi famose. Probabilmente tanto. A Enzo Ferrari doveva piacere molto essere Enzo Ferrari. Diceva, in una delle sue frasi più note e più crudeli, di sentirsi colpevole di essere sopravvissuto. Ai suoi dolori, ai suoi piloti, a suo figlio. Ma, per quanto il cuore di una persona sia insondabile, non doveva essere sempre così. Quanto orgoglio nelle sue scelte, quanta superbia nelle sue decisioni, quanta consapevolezza nelle sue parole.
Da quando suo figlio Dino era morto, strappato via dalla distrofia muscolare, non si muoveva mai dal triangolo compreso tra Modena, Fiorano e Maranello. Come novelli Maometti dell'antico detto sul Profeta e la montagna, erano gli altri ad andare a lui. Le celebrità del momento e i potenti del mondo e dello sport. E anche le sue conferenze stampa, che poco dopo il Gran Premio d'Italia tracciavano il bilancio della stagione ferrarista, avevano il potere di richiamare l'intera stampa mondiale, essendo uno degli eventi clou della Formula 1. I giornali specializzati le riportavano con una fedeltà impressionante, dedicando al padrone della Ferrari, e dunque dei cuori dei tifosi di mezzo mondo, copertine e commenti. Quelle conferenze arrivavano quando l'attesa per il futuro della Ferrari, per i nomi dei piloti della stagione successiva, diventava spasmodica. Enzo Ferrari sapeva giocare con i giornalisti e con le loro esigenze. Cosa dire su Enzo Ferrari che non sia stato già detto? Ripercorrere la sua vita, da quella famosa doppia data di nascita nel febbraio del 1898? Ripensare alla sua passione per i motori che allontanò dalla terra lui, figlio della civiltà contadina padana, e che pure continuava a vedere nella terra l'unico vero bene sinonimo di ricchezza? Ricordare gli anni di studio e di nostalgia a Torino, una città che sarebbe ritornata più volte nella sua vita e con cui non ebbe mai, probabilmente ricambiato, un rapporto di grande affetto? Sottolineare la grande intelligenza e conoscenza dei propri limiti, che lo portò ad abbandonare il volante dell'Alfa Romeo per dare vita a una squadra tutta sua? Ripercorrere le mille leggende che accompagnano la nascita della Ferrari, sin dal suo simbolo, quel Cavallino Rampante donato a Enzo Ferrari dalla madre di Francesco Baracca? non un pilota qualunque, ma l'eroe nobile e coraggioso della Prima Guerra Mondiale. La Grande Guerra di cui il diciottenne Enzo fu combattente, da bravo e orgoglioso ragazzo del '98. E ricordare i successi degli anni epici, quando i rivali erano le grandi case automobilistiche dell'epoca, la Mercedes (anche allora...), la Maserati e l'Alfa Romeo, e i piloti si chiamavano Alberto Ascari, Juan Manuel Fangio, Stirling Moss? Raccontare gli episodi, i piccoli imbrogli, i vezzi, i tradimenti reciproci nei rapporti tra il grande costruttore e i grandi piloti dei mitici anni '50? Sottolineare ancora una volta il grande dolore causato dalla perdita del figlio Dino, morto a 24 anni, quando era un promettente ingegnere catturato dalla passione del padre e dalla sua azienda? A Dino, alla sua memoria e al suo ricordo Enzo Ferrari ha dedicato una Fondazione per la lotta alla distrofia muscolare, una delle vetture più celebri e più prestigiose della sua casa automobilistica, un circuito e il sacrificio della sua vita, da allora trascorsa tra Modena e l'Emilia, senza più teatri e cinema. Ricordare il suo strano rapporto con le donne, ammirate sempre con lo sguardo un po' misogino dell'uomo nato alla fine del secolo scorso, sufficientemente intelligente e scaltro da divertirsi a indispettire le femministe degli anni '60 con frasi ad effetto? Cercare una definizione per il suo menage a trois con la moglie Laura, madre di Dino, e la compagna Lina, madre di Piero, quando niente è più indefinibile della chimica che si stabilisce tra un uomo e una donna? E ripensare alla Ferrari che cresceva e acquistava prestigio, fino a diventare uno dei simboli dell'Italia, dell'arte dei suoi artigiani, della passione della sua gente, dell'eleganza della sua tradizione? E ricostruire quell'affetto per la propria creatura e quell'aspirazione, legittima, all'immortalità nella ricerca di un futuro per la Ferrari anche dopo la sua morte, stabilito poi dall'accordo con la Fiat, raggiunto solo dopo aver avuto la certezza che la Gestione Sportiva sarebbe rimasta, smisurato orgoglio, solo e soltanto a lui? E poi ripercorrere le piccole astuzie, il gusto per la scoperta di un nuovo talento, la capacità di stupire sempre e il compiacimento conseguente, l'orgoglio della diversità della Ferrari e la certezza indiscutibile che gli uomini sarebbero passati ma la Ferrari sarebbe rimasta sempre la Ferrari? E ricordare i dolori e le amarezze degli ultimi anni, dalla morte dell'amatissimo Gilles Villeneuve alla mancanza di competitività che aveva spinto la Ferrari sempre più giù nelle classifiche mondiali, eppure sempre prima, nei cuori e negli affetti della gente della Formula 1? Perché non esisterebbe Gran Premio senza una bandiera col Cavallino Rampante sventolante orgogliosa su una qualunque collina o una qualunque curva di un qualunque circuito, in qualunque parte del mondo. Tanti anni senza un Titolo Mondiale Piloti, eppure l'affetto e le speranze immutate degli appassionati stanno lì a testimoniare il prestigio e il fascino della Scuderia di Maranello. E sono forse il riconoscimento di cui Enzo Ferrari potrebbe essere più orgoglioso.
Il
mio ricordo di Enzo Ferrari è legato a ciò che i mass media lasciavano
intravedere della sua personalità, ma se il dispetto di Niki Lauda, che se n'è
andato perché era pagato troppo poco, gli sfoghi di Nelson Piquet, che aveva
accusato una volta Ferrari di essere convinto che i piloti dovessero quasi
pagare, anziché essere pagati, per guidare le sue vetture, hanno un significato,
allora chissà se Enzo Ferrari avrebbe mai apprezzato che il destino della sua
squadra fosse affidato a Michael Schumacher, già due volte Campione del Mondo,
troppo pagato e con un potere che lo avrebbe fatto inorridire, perché il padrone
in Ferrari era uno solo. Enzo Ferrari.
Non so cosa sia la Ferrari per i quindicenni di oggi. Per me era la scuderia che
prendeva un giovanotto austriaco di belle speranze e lo rendeva due volte
campione del mondo, poi quando questi era diventato troppo popolare, autonomo ed
esigente da abbandonarla con polemiche e rancore, lo sostituiva con uno
sconosciuto canadese (massimo segno di spregio per l'orgoglioso campione)
trasformandolo nel suo ultimo grande e rimpianto mito. Se c'è qualcuno che nella
Formula 1 odierna mi ricorda per orgoglio, consapevolezza e superbia Enzo
Ferrari questi è Frank Williams: lo stesso fondamentale disprezzo per l'uomo
rispetto alla macchina, la stessa incrollabile certezza di aver costruito
qualcosa di speciale e di unico che qualunque campione dovrebbe essere felice di
avere il privilegio di guidare. A Williams manca forse la capacità organizzativa
e di tenere saldamente nelle mani il rapporto tra e con gli uomini del team,
piloti compresi, che aveva Enzo Ferrari. L'orgoglio e le certezze sono però
simili ed è pensando a questi che mi chiedo talvolta se la nuova Ferrari, così
poco modenese e italiana, sarebbe piaciuta al suo fondatore, che amava definirsi
"un agitatore di uomini" e provocare la competitività tra i propri uomini per
trarne il meglio. Chissà cosa avrebbe detto della Ferrari che gli è
sopravvissuta il vecchio signore sempre protetto dagli occhiali scuri che se n'è
andato in silenzio il 14 agosto del 1988, pretendendo che la sua scomparsa fosse
annunciata al mondo solo a funerali avvenuti. Perché lo show-man delle
conferenze stampa, il figlio di contadini divenuto costruttore di automobili,
l'Ingegnere, era un uomo discreto e riservato. E, in fondo, incompreso e
sconosciuto.