Il circuito descritto dal giornalista inglese W.F.Bradley

 

Il giornalista inglese W.F.Bradley (foto a sinistra), amico di Vincenzo Florio e corrispondente della rivista “The autocar” nel 1955 nel libro “Targa Florio an authentic history of the famous motor race” così descrive il pecorso della Targa Florio nella prima edizione del 1906. Questo libro in lingua inglese è stato tradotto nel 1965 sotto il titolo “Il romanzo della Targa Florio”. Una descrizione ricca di suggestioni fatta da un giornalista che sicuramente si è innamorato di questi luoghi. Al tempo uno dei più famosi giornalisti ed uno dei pochi, assieme al fotografo Meurisse (foto sopra) ed al giornalista francese de “L’auto” Charle Faroux, autorizzato da Vincenzo Florio ad entrare nel percorso della Targa Florio.

                                                                                                                                                                                                                                          

Il giorno della prima edizione della Targa Florio lo spettacolo si presentò affascinante: festoni di limoni e di aranci sovrastavano la linea di partenza; sul ciglio della strada fra cactus ed eucalipti fiammeggiava il rosso dei gerani, mentre sullo sfondo s'intravvedeva l'azzurro dai toni mutevoli del Mediterraneo. Verdeggiante fino alla vetta di oltre 1700 metri, l'imponente massa di San Calogero si ergeva come un benevolo custode. Tutti i partecipanti alla corsa dovevano certamente chiedersi se, prima o poi, quella strada tortuosa, una curva di seguito all'altra, avrebbe mai cessato di arrampicarsi; non presentava un reale pericolo, tuttavia pareva torcersi come un'anima in pena, liberandosi della morsa per qualche centinaio di metri per essere poi ripresa da una sorta di furia selvaggia, che la faceva rigirare su se stessa e svolgersi poi in una corsa disperata che finiva immancabilmente ad una curva. Al villaggio di Cerda il percorso presentava un rettifilo di circa 500 metri, che poi curvava per salire oltre il villaggio di cui si scorgevano i tetti in dolce pendenza, le case prive di fumaioli, le stradicciole strette, per lo più a gradinata. Il paesaggio era bello, con i suoi tratti irregolari di prato di un verde morbido che ricordava la campagna inglese in primavera e chiazze del verde scuro degli uliveti, inframmezzate dalle sfumature lilla del trifoglio e, qua e là, dalle macchie gialle della ginestra. La strada saliva senza fine prendendo ogni tanto fiato in qualche profonda vallata, quasi per acquistare energia per lo sforzo successivo, scorrendo in mezzo alle coltivazioni di asparagi, ai pendii coperti di spinosi cactus; sempre con lo sfondo verticale della roccia tanto levigata che nessun seme aveva potuto piantare radici su quelle lisce pareti. Superati i villaggi di Caltavuturo e di Castellana alla vista Petralia, appariva alla vista Petralia, o meglio Petralia Bassa, appollaiata a 900 metri di altezza, mentre il villaggio rivale, Petralia Soprana, si ergeva ancora più in alto alla distanza di circa due chilometri. I due paesi non erano sulla montagna ma nella montagna. In tempi remoti le pareti della montagna erano state scavate per costruire i due villaggi su un irto dirupo che sporgeva a forma di terrazza, protetta da inferriate in ferro e dalla quale sarebbe stato possibile, come forse accadeva, far ruzzolare massi di pietra su chiunque avesse tentato di scalare il sentiero intagliato nella roccia. Col passar degli anni la pista si era tramutata in una strada che a destra costeggiava un burrone e a sinistra era delimitata dai nudi muri delle case. Dalle finestre delle abitazioni la gente godeva la vista della valle inondata di sole, ove pascolavano capre e pecore; qua e là si vedevano piccoli appezzamenti di terreno coltivati, ma nonostante l'aspetto pittoresco a Petralia nessuno aveva fatto nulla per attirare i turisti. Niente botteghe di souvenirs, nessuna autorimessa a deturpare le anguste stradine, neppure un ristorante o un albergo per offrire cibo ad eventuali visitatori. Poco prima di giungere a Geraci, a circa mille metri di altezza, la strada sembrava cessare bruscamente, nascosta da una curva secca sulla sinistra, quindi scendeva con ripidità decrescente fino ad una valle, per poi risalire e raggiungere il piccolo villaggio di San Mauro. Seguivano circa 15 chilometri di discesa ripidissima, le cui larghe curve rappresentavano una prova durissima per i piloti, costretti a guadagnare frazioni di secondi. A mano a mano che si scendeva l’aspetto selvaggio e maestoso del paesaggio era raddolcito dagli ulivi e dagli aranceti finché, giunti al paese di Castelbuono, con le sue viuzze strette e ben selciate, l'occhio era rallegrato da giardini pieni di rose e di gerani. La tortuosa strada che tagliava il villaggio consentiva a due macchine di procedere affiancate ma soltanto un pilota molto audace avrebbe tentato di stabilito superare concorrente in quel tratto. Era stato stabilito che il giorno della corsa si sarebbero erette staccionate per tenere il pubblico lontano dal percorso, mentre ponticelli volanti avrebbero consentito alla gente di spostarsi da un lato all'altro della strada. Ancora tratti tortuosi, salite e discese poi, superati i villaggi di Isnello e di Collesano, si giungeva, dopo una dolce e facile discesa, a Campofelice, un paesino che sovrastava di circa trecento metri il fertile tratto di terra lungo la costa. A quel punto l'ardua impresa era finalmente ricompensata da un rettifilo lungo circa otto chilometri.

                       

                                                                                                                                                                                                                        W.F.Bradley