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       Il 
      giorno della prima edizione della Targa Florio lo spettacolo si presentò 
      affascinante: festoni di limoni e di aranci sovrastavano la linea di 
      partenza; sul ciglio della strada fra cactus ed eucalipti fiammeggiava il 
      rosso dei gerani, mentre sullo sfondo s'intravvedeva l'azzurro dai toni 
      mutevoli del Mediterraneo. Verdeggiante fino alla vetta di oltre 1700 
      metri, l'imponente massa di San Calogero si ergeva come un benevolo 
      custode. Tutti i partecipanti alla corsa dovevano certamente chiedersi se, 
      prima o poi, quella strada tortuosa, una curva di seguito all'altra, 
      avrebbe mai cessato di arrampicarsi; non presentava un reale pericolo, 
      tuttavia pareva torcersi come un'anima in pena, liberandosi della morsa 
      per qualche centinaio di metri per essere poi ripresa da una sorta di 
      furia selvaggia, che la faceva rigirare su se stessa e svolgersi poi in 
      una corsa disperata che finiva immancabilmente ad una curva. Al villaggio 
      di Cerda il percorso presentava un rettifilo di circa 500 metri, che poi 
      curvava per salire oltre il villaggio di cui si scorgevano i tetti in 
      dolce pendenza, le case prive di fumaioli, le stradicciole strette, per lo 
      più a gradinata. Il paesaggio era bello, con i suoi tratti irregolari di 
      prato di un verde morbido che ricordava la campagna inglese in primavera e 
      chiazze del verde scuro degli uliveti, inframmezzate dalle sfumature lilla 
      del trifoglio e, qua e là, dalle macchie gialle della ginestra. La strada 
      saliva senza fine prendendo ogni tanto fiato in qualche profonda vallata, 
      quasi per acquistare energia per lo sforzo successivo, scorrendo in mezzo 
      alle coltivazioni di asparagi, ai pendii coperti di spinosi cactus; sempre 
      con lo sfondo verticale della roccia tanto levigata che nessun seme aveva 
      potuto piantare radici su quelle lisce pareti. Superati i villaggi di 
      Caltavuturo e di Castellana alla vista Petralia, appariva alla vista 
      Petralia, o meglio Petralia Bassa, appollaiata a 900 metri di altezza, 
      mentre il villaggio rivale, Petralia Soprana, si ergeva ancora più in alto 
      alla distanza di circa due chilometri. I due paesi non erano sulla 
      montagna ma nella montagna. In tempi remoti le pareti della montagna erano 
      state scavate per costruire i due villaggi su un irto dirupo che sporgeva 
      a forma di terrazza, protetta da inferriate in ferro e dalla quale sarebbe 
      stato possibile, come forse accadeva, far ruzzolare massi di pietra su 
      chiunque avesse tentato di scalare il sentiero intagliato nella roccia. 
      Col passar degli anni la pista si era tramutata in una strada che a destra 
      costeggiava un burrone e a sinistra era delimitata dai nudi muri delle 
      case. Dalle finestre delle abitazioni la gente godeva la vista della valle 
      inondata di sole, ove pascolavano capre e pecore; qua e là si vedevano 
      piccoli appezzamenti di terreno coltivati, ma nonostante l'aspetto 
      pittoresco a Petralia nessuno aveva fatto nulla per attirare i turisti. 
      Niente botteghe di souvenirs, nessuna autorimessa a deturpare le anguste 
      stradine, neppure un ristorante o un albergo per offrire cibo ad eventuali 
      visitatori. Poco prima di giungere a Geraci, a circa mille metri di 
      altezza, la strada sembrava cessare bruscamente, nascosta da una curva 
      secca sulla sinistra, quindi scendeva con ripidità decrescente fino ad una 
      valle, per poi risalire e raggiungere il piccolo villaggio di San Mauro. 
      Seguivano circa 15 chilometri di discesa ripidissima, le cui larghe curve 
      rappresentavano una prova durissima per i piloti, costretti a guadagnare 
      frazioni di secondi. A mano a mano che si scendeva l’aspetto selvaggio e 
      maestoso del paesaggio era raddolcito dagli ulivi e dagli aranceti finché, 
      giunti al paese di Castelbuono, con le sue viuzze strette e ben selciate, 
      l'occhio era rallegrato da giardini pieni di rose e di gerani. La tortuosa 
      strada che tagliava il villaggio consentiva a due macchine di procedere 
      affiancate ma soltanto un pilota molto audace avrebbe tentato di stabilito 
      superare concorrente in quel tratto. Era stato stabilito che il giorno 
      della corsa si sarebbero erette staccionate per tenere il pubblico lontano 
      dal percorso, mentre ponticelli volanti avrebbero consentito alla gente di 
      spostarsi da un lato all'altro della strada. Ancora tratti tortuosi, 
      salite e discese poi, superati i villaggi di Isnello e di Collesano, si 
      giungeva, dopo una dolce e facile discesa, a Campofelice, un paesino che 
      sovrastava di circa trecento metri il fertile tratto di terra lungo la 
      costa. A quel punto l'ardua impresa era finalmente ricompensata da un 
      rettifilo lungo circa otto chilometri. 
      
                             
       
      
                                                                                                                                                                                                                           
        
      W.F.Bradley 
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